CaviCosa accade quando digitiamo sulla tastiera le parole di una ricerca, dove finiscono quei dati, quale meccanismo si attiva, cosa si nasconde dietro?

Email, blog, foto, filmati, social network e tutto quello che fa parte della galassia Google funziona grazie ai data center. Al un nostro click si attiva una enorme macchina che "vive" in una “nuvola” di infrastrutture sparse per il pianeta.
Ospitati in anonimi edifici circondati da un’imponente rete di videocamere di sorveglianza e da alte recinzioni, dove giganteschi server vengono fatti funzionare per servire le richieste di milioni di utenti nel medesimo istante e nel minor tempo possibile. Tempi brevi, anzi brevissimi di risposta, potenze sempre maggiori hanno però un prezzo altissimo in termini di energia impiegata.

Avvicinandoci a queste strutture, oltre alle telecamere di sorveglianza e alla bruttezza degli edifici anonimi e impersonali, possiamo notare file di generatori, cavi e tubi, torri di raffreddamento e guardie agli ingressi. Per accedere bisogna superare una serie di controlli, poi finalmente ci troveremmo in ampi spazi pieni di, centinaia di armadi metallici, stipati di server e cavi, con temperature da frigorifero e con il monotono e intenso ronzio delle ventole di raffreddamento.
L’aria all’interno circola dal basso all’alto, esce dal pavimento, fredda. Aspirata dai server dalla parte frontale, viene convogliata all’interno a raffreddare i circuiti ed esser spinta fuori sul retro a temperature molto più alte quindi aspirata all’esterno dell’edificio o nell’impianto di refrigerazione (a seconda delle tecnologie impiegate). Flussi continui che non si incontrano, ma che ininterrottamente si muovono in questi grandi impianti.
Alcune di queste strutture hanno nel loro perimetro enormi serbatoi di stoccaggio dell’acqua fredda, ma tutti presentano montagne di batterie per i gruppi di continuità, robot che gestiscono librerie di nastri magnetici per i backup, e imponenti sistemi antincendi di vario tipo.

La “nuvola” alla fine conta magliai di edifici disseminati in ogni parte del mondo con dimensioni di tutto riguardo come il data center sorto a Chicago su un’area di 65000 metri quadrati o come i 10700 metri quadrati della sola sala macchine del centro di Dalles in Oregon.
Negli ultimi 5 anni la richiesta di queste strutture è si è quadruplicata grazie alla crescente richiesta di servizi informatici dovuti al diffondersi di smart-phone, console per giocare online e servizi e servizi vari offerti in rete. Tutto in funzione per 24 ore su 24, 365 giorni all’anno. Strutture che possono sopravvivere a un black-out anche per decine di giorni consecutivi.
I nuovi modelli commerciali spostano sempre più l’enfasi sulla rete e sulla nuvola, youtube, flickr, facebook solo per fare alcuni esempi.

Se facebook meno di 10 anni fa’ si trovava su due server sotto la scrivania del suo creatore, oggi occupa un infinità di server in centinaia di data center sparsi per il pianeta, per questioni ottimizzazione dei tempi di risposta ma anche e soprattutto per l’imponente mole di dati trattati.
Oltre alla potenza di memorizzazione un altro fattore è la velocità che secondo uno studio di Amazon quantizza perdite pari 1% nelle vendite per ritardi nella risposta pari a 100 millisecondi.
La ricerca scientifica e quella tecnologica in questo settore hanno come obbiettivo ridurre i consumi e la dissipazione termica. La temperatura dei data center è costantemente mantenuta intorno ai 15 gradi operazione necessaria per mantenete i processori a temperature ottimali d’esercizio. I costi esorbitanti di gestione dei data center stanno facendo sperimentare nuove soluzioni.

Da qualche mese il colosso della rete Google ha deciso con la creazione di un apposito sito "Where the Internet Lives" (dove vive Internet), di rendere visibili i propri segretissimi data center.
Una galleria fotografica di otto dei suoi data center, sei dislocati negli Stati Uniti e due in Europa, a Hamina in Finlandia e a St Ghislain in Belgio ci mostrano le strutture e la vita di queste realtà.
Un sobrio sito, nello stile dell’azienda di Mountain View, ci accoglie con una serie di curate fotografie, della fotografa Connie Zhou, e con note del giornalista Steven Levy, ci permette di entrare virtualmente in questi otto data center , in una interessante visita virtuale. Brevi didascalie (il sito è disponibile anche in italiano) ci avvicinano a questo mondo, a questi luoghi, permettendoci di conoscere anche alcuni personaggi che lo popolano.
Alcune piccoli dettagli e curiosità corredano le informazioni. A St Ghislain c’è il primo impianto a funzionare senza impianti di refrigerazione dell'acqua. Con l’aria esterna, grazie a un processo denominato "free cooling" si raffredda l’acqua ma nel centro belga ha anche un impianto locale di purificazione dell'acqua che consente di usare le risorse idriche di un canale industriale vicino anziché quelle cittadine. In Filandia, il centro è stato creato all’interno di una vecchia cartiera e per il raffreddamento viene impiegata l'acqua del Mar Baltico non depurata, che giunge all’impianto attraverso un tunnel già presente nella costruzione.

I progettisti di Google si sforzano di realizzare centri e strutture con il minor impatto ecologico possibile ad esempio in Georgia o quello in Oklahoma, completamente alimentato da energia eolica. Una mossa quella di Google non tanto di svelare un segreto, che poi così tanto non lo era, infatti vari indizi e dettagli avevano permesso già di localizzare i vari data center e incrociando differenti dati di determinare le tecnologie che li governano.
Una mossa questa sicuramente ben studiata volta a rafforzare l’immagine del colosso della rete ma soprattutto mirata ad attirare nuovi investitori e dare quindi maggiore valore all'azienda.
Google, in questi anni, ha fatto passi da gigante rispetto a quando erano un paio di server molto economici ad alimentarlo. Nel blog Google Green sono analizzate altre foto in modo più dettagliato.
L'azienda di Mountain View. Inoltre ha bisogno di una immagine positiva che questo sito senza dubbio sa trasmettere, da opporre all’immagine, meno positiva, piena di dubbi e di lati oscuri, che sta già proiettando l'antitrust statunitense e quella europea con le accuse di violazione della privacy e abuso di posizione dominante.

Uno sforzo comunicativo che ha mobilitato tutte le componenti del colosso dei motori di ricerca. Così con Street View  possiamo vedere "dove si fa Google", visionando il data center di Lenoir, nel North Carolina.
Caratterizzato da un ingresso, molto geek più simile a un parco giochi che una multinazionale, carrozzerie di auto all'ingresso e una enorme sala relax con copertoni da gara e tavoli da ping pong. Ma impressionante è il cuore delle struttura con l'immensa sala dei server, dove gli armadi si perdono a vista d'occhio in un intreccio di cavi. Rimanendo sorpresi per l’insolita coppia che presidia una fila di rack. Un piccolo droide R2-D2 e un soldato Stormtrooper delle truppe imperiali.
Con le immagini o i filmati di Youtube si cerca di dar risposte e rassicurare l’utenza sulle mille domande che sorgono su dove siano i dati, quale sia la sicurezza, che fine facciano i dischi danneggiati. Si mostrano anche dettagli tecnici, quali quelli relativi alla dissipazione termica che i tecnici di Mountain View hanno affrontato in maniera differente rispetto agli altri. Mantenendo i server a temperature relativamente alte, tra 80 e 120 gradi centigradi e facendo scorrere dietro le macchine acqua in serpentine che assorbe il calore in eccesso trasportato poi in torri di raffreddamento, simile a quella delle centrali elettriche i tecnici di big G cercano di ridurrei consumi e energetici.

Una attenzione all’ecologia necessaria, non solo per questioni ideologiche ma anche di immagine, a fronte delle critiche rivolte al sistema di “cloud” che si stima arrivino ad assorbire globalmente già 277 TeraWattora l'anno. Un’immagine, quella della nuvola, soffice, impalpabile, leggera, che si contrappone alla grande voracità di energia delle strutture che la sorreggono.
Le mail, i nostri social network, i nostri documenti on line, insomma il cloud o nuvola nel nostro italico idioma, consumano tantissima energia contribuendo in maniera significativa alle emissioni di CO2.
Secondo un ricercatore del Manhattan Institute Robert Bryce la soluzione non sta nelle rinnovabili.
Considerando che il cloud consuma l'1,3% del totale dell'energia usata nel mondo, a volerci consolare o a trovare un lato positivo possiamo aggiungere che se dovessimo spostarci con un qualsiasi mezzo per reperire la stessa quantità di informazioni, sarebbe molto più dispendioso e forse impossibile da realizzare anche con tempistiche neanche lontanamente paragonabili.

Insomma i 277 TWh sono superiori al consumo di Stati delle dimensioni dell'Australia o del Messico e tenendo conto che il maggior numero di data center (non solo di Google) sono negli Stati Uniti dove il 40% dell’energia è prodotta dell’economicissimo, ma inquinantissimo carbone, un paio di centri e qualche ingegnosa soluzione, non risolvono il problema. E per meglio inquadrare il problema c’è da dire che sommando insieme il numero di edifici e la superficie occupata da tutti i data center arriveremmo alle dimensioni di una cittadini piu’ che alle dimensioni di una piccola città di provincia.
Anche la casa della mela morsicata, Apple, ha subito pesantissime critiche annunciando di volere alimentare i i suoi data center con le rinnovabili. Ma sono molti gli scettici. Apple da sola consuma centinaia di megawatt. Microsoft trionfante annuncia da alcuni mesi di essere "carbon neutral" ma pochi se non addirittura nessuno ci crede. Facebook, dopo una lunghissima polemica con Greenpeace, ha promesso di non usare più il carbone. Peccato non abbia specificato come abbia conseguito il risultato. Big blue, IBM, ha installato i pannelli solari su alcuni data center, ma la produzione non supera il 20% del fabbisogno globale. Un problema molto più complesso di quanto gli addetti alle pubbliche relazioni delle aziende vogliano far credere. Le rinnovabili non bastano, bisogna ridurre i consumi degli attuali server.